Una tecnica nuova per una qualità della vita migliore

Parlando con amici e colleghi mi sono spesso ritrovato a chiedermi, probabilmente con espressione contrariata, perché in Italia venga considerato nuovo, ciò che nel resto del mondo ha già compiuto almeno dieci anni.

Allo stesso modo nel Novembre 2009, in occasione della mia prima visita in Belgio dal professor Erik De Witte, chirurgo di fama internazionale specialista nella chirurgia protesica dell’anca per via anteriore, mi trovai all’aeroporto di Bruxelles a domandarmi cosa ci fosse di così innovativo in una tecnica chirurgica descritta per la prima volta da un ortopedico di nome Smith-Petersen nel lontano 1917. Ancora non sapevo che di lì a poco avrei cominciato un lungo viaggio alla scoperta della mininvasività nella chirurgia protesica d’anca, contagiato dalla dialettica e dalla gestualità del professor De Witte, un percorso che avrebbe cambiato per sempre la mia esperienza professionale.

Un percorso consapevole di apprendimento

E dopo nemmeno sei mesi trascorsi tra congressi scientifici, viaggi all’Istituto di Anatomia di Barcellona per i miei studi di dissezione e di tecnica chirurgica e dopo ulteriori visite in Italia da parte del Prof. De Witte, nell’aprile dell’anno successivo ero in sala operatoria ad eseguire con successo la mia prima protesi d’anca con via d’accesso anteriore mininvasiva (nota come DAA, approccio anteriore diretto).

Il mio percorso di formazione professionale fino ad allora mi aveva portato alla conoscenza delle principali vie d’accesso tradizionali nella protesica d’anca: prima presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, tempio della via laterale diretta; poi nella mia esperienza come Dirigente Medico all’Ospedale Morgagni di Forlì, con la pratica quotidiana della via postero-laterale.

Oggi posso affermare che quest’ultimo percorso in ambito traumatologico abbia sicuramente contribuito all’acquisizione dell’esperienza necessaria a gestire tutte le complicanze che possono subentrare durante l’esecuzione di un impianto di protesi d’anca: la capacità di trattare adeguatamente una frattura del femore o dell’acetabolo con cerchiaggi metallici, placche e viti; quella di utilizzare, se necessario, innesti sintetici per far fronte a gravi perdite di sostanza ossea o a severa osteoporosi a livello del cotile o anche quella di intervenire in casi complessi di revisione protesica, che prevedono la rimozione di protesi ed, eventualmente, di cemento dal canale femorale.

In cerca di nuovi benefici per i pazienti

La decisione di abbandonare le tecniche tradizionali alla ricerca di nuove strade nasceva da una certa insoddisfazione dell’analisi dei risultati clinici a distanza, da un’attenta valutazione dei dati dei Registri Nazionali Protesici Ortopedici (circa 100.000 interventi di protesi d’anca in Italia ogni anno) e dagli studi della letteratura scientifica sull’incidenza di complicanze in termini di lussazione dell’impianto, dolore residuo, zoppia e eterometria degli arti.

Nonostante la lunga e tortuosa curva di apprendimento della metodica mininvasiva anteriore diretta, la sensazione di riuscire a riprodurre in maniera sequenziale i gesti chirurgici che avevo rubato con gli occhi al Prof. De Witte si tramutò ben presto nella progressiva capacità di eseguire la tecnica con estrema precisione e sicurezza, sempre più confortato dai risultati clinici ottenuti e dalla soddisfazione dei pazienti operati.

La consapevolezza di aver raggiunto in breve tempo risultati clinici superiori in termini di beneficio per i pazienti, migliorandone la qualità della vita dal punto di vista sia fisico che psicologico, è stata, ed è ancora oggi una grande motivazione alla ricerca di continui aggiornamenti e sviluppi in termini di efficacia e sicurezza della tecnica.

Ma cosa c’è di così magico nella “ricetta” della mininvasività? La conservazione del patrimonio osseo e il risparmio delle inserzioni muscolo-tendinee, utilizzando protesi di piccole dimensioni e strumentari dedicati, si traducono in una minore incidenza di complicanze e nella riduzione dei tempi di recupero riabilitativo, con ripresa funzionale completa a medio-breve termine.

La minima e “cosmetica” cicatrice chirurgica nella variante bikini con incisione inguinale, la possibilità di eseguire una mobilizzazione precoce dell’anca nel post-operatorio in assenza di dolore, le modeste perdite ematiche, l’assenza di zoppia, la grande stabilità muscolare che i pazienti avvertono, con rischio minimo di lussazione, il controllo ottimale da parte del chirurgo della lunghezza degli arti, grazie alla posizione supina sul tavolo operatorio, costituiscono ancora oggi il risultato di una grande dedizione nello studio della tecnica chirurgica, di una maniacale precisione nella pianificazione dell’intervento e di una meticolosa attenzione a quei dettagli anatomici che rendono ogni paziente, a suo modo, unico.

Una metodica affidabile se supportata da padronanza tecnica ed esperienza

Oggi, dopo dieci anni di esperienza sul campo, posso affermare che nella mia pratica quotidiana non esiste un’indicazione specifica nella scelta di questa via d’accesso, utilizzandola in maniera standard per tutti i pazienti affetti da osteonecrosi della testa del femore o da artrosi primitiva dell’anca, così come nei quadri più complessi di coxartrosi secondaria a displasia congenita o coxa vara protrusio acetabuli. La reputo sicuramente uno strumento affidabile in grado di fornire una maggiore precisione e ripetitività nel posizionamento delle componenti protesiche, anche se è importante sottolineare che soggetti molto muscolosi, individui obesi, pazienti anziani con osteoporosi conclamata e la chirurgia di revisione protesica dell’anca (in questo caso parliamo di accesso anteriore esteso), richiedono una notevole esperienza da parte del chirurgo, soprattutto nella preparazione del canale femorale che costituisce sicuramente la fase più complessa di tutta la procedura.

Poi, all’improvviso, guardandoti indietro, scopri che da quel giorno in aeroporto sono passati più di dieci anni e così, mentre stai partecipando come relatore a congressi scientifici sulla mininvasità della protesica d’anca o come tutor di giovani specializzandi ortopedici in cadaver lab e corsi di formazione, ti accorgi che nel frattempo hai eseguito più di mille interventi di protesi d’anca con questa tecnica “nuova”.

E alla fine, davanti ad uno specchio, devi ammettere con un sorriso e con un pizzico di amarezza, di avere forse qualche ruga in più rispetto a quel giorno ma, in fondo, anche la stessa passione di sempre per questo splendido lavoro.

Paolo Razzaboni

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