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Una protesi all’anca per sostituire l’articolazione: qual è la sua durata?


Quando ci si appresta ad un intervento di protesi d’anca, una delle domande più frequenti che viene rivolta al chirurgo ortopedico è quale sia la durata media dell’impianto protesico. Oggi è possibile dire che, nella maggior parte dei casi “una protesi è per tutta la vita”.

Longevità e perfetta funzionalità di una protesi d’anca dipendono da numerosi fattori, alcuni di tipo anatomico, altri relativi allo stile di vita del paziente. In generale si può dire che il 90% delle protesi è in ottime condizioni e ben funzionante a 20-25 anni dall’impianto. Dopo circa dieci anni, il 25% delle protesi mostra iniziali segnali di osteorarefazione alle immagini radiografiche ma, nella maggior parte dei casi, non associati ad alcuna sintomatologia. Per questo motivo è abbastanza improbabile dover ricorrere ad un intervento di revisione protesica nel corso della vita; tuttavia, nei soggetti più giovani, è possibile adottare alcuni accorgimenti affinché un eventuale secondo intervento sia il più remoto e meno complesso possibile.

Materiali e design protesici con le loro eccellenti caratteristiche di resistenza meccanica ed elevata biocompatibilità, oggi forniscono ottime garanzie di longevità, ma quali altri fattori possono incidere sulla loro durata a lungo termine?
Sicuramente il “carico” a cui è sottoposta l’articolazione: in presenza di una protesi è, infatti, importante tenere sotto controllo il peso corporeo per non gravare troppo sull’anca né sollecitarla in maniera eccessiva.

Ci sono anche altri accorgimenti che possono assicurare le migliori condizioni di funzionalità ad una protesi, evitando il sovraccarico funzionale:
-se è vero che una moderata attività sportiva consente di rinforzare la muscolatura degli arti inferiori e, quindi, di diminuire il carico meccanico sulla protesi, sarebbe meglio evitare sport ad alto impatto come corsa, pallacanestro e pallavolo, prediligendo discipline come walking, golf, tennis, nuoto e bicicletta;
-astenersi da attività lavorative pesanti, che implichino movimenti traumatici o microtraumatici ripetuti a carico dell’anca operata;
-cercare di evitare movimenti bruschi e repentini in flessione del tronco e rotazione del bacino, prestando attenzione a non subire cadute o traumi diretti all’articolazione;
-limitare sforzi eccessivi, come sollevare o spingere ripetutamente grossi pesi, inginocchiandosi e flettendo eccessivamente il busto;
prestare attenzione, soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’intervento, ad alcuni movimenti quotidiani come entrare e uscire dall’auto per guidare, salire e scendere le scale e le attività fisiologiche in bagno.

Se si considerano gli aspetti tecnici dell’intervento chirurgico, invece, è fondamentale ribadire che la modalità di inserimento delle componenti protesiche e il loro corretto orientamento femorale e acetabolare (antiversione, offset, centro di rotazione, asse anatomico, etc) sono condizione essenziale per un ripristino stabile e duraturo della geometria e della biomeccanica articolare dell’anca. L’abilità pratica del chirurgo nello sfruttare appieno il concetto di reale mininvasività, risparmiando le inserzioni muscolo-tendinee e il tessuto osseo periprotesico, consente di garantire maggiore stabilità della protesi e di preservarla nel tempo.
In alcuni casi, però, nonostante le capacità dello specialista o le caratteristiche tecniche della protesi, si possono presentare condizioni di osteolisi e di riassorbimento osseo fino ad arrivare a una vera e propria perdita di sostanza ossea che può portare al progressivo scollamento dell’impianto (mobilizzazione asettica), rendendo necessario un intervento di revisione e sostituzione protesica.

Anche le caratteristiche tecniche dell’impianto, in relazione all’anatomia del paziente, possono influire sull’usura e, quindi, sulla durata media di una protesi. È ormai opinione comune tra gli addetti ai lavori considerare il “patrimonio protesico” oggi disponibile di primissima qualità per design e caratteristiche dei biomateriali, tale da garantire al chirurgo standard altissimi di osteointegrazione dell’impianto, anche in condizioni di severa osteoporosi.
La filosofia attuale è quella di prediligere, salvo rare eccezioni, protesi non cementate (press fit) rispetto a quelle cementate, cercando di scegliere tra i vari modelli quelli che meglio si adattano alle caratteristiche morfologiche del canale femorale; la tendenza si è spostata verso l’utilizzo di steli “monoblocco” corti, piuttosto che steli “modulari” lunghi, e dal punto di vista tribologico, anche i materiali dell’accoppiamento articolare consentono di scegliere tra un‘ampia gamma di soluzioni, tutte estremamente affidabili. L’accoppiamento ceramica-ceramica, ancora oggi riservato a pazienti giovani con alte richieste funzionali, si conserva pressoché immutato nel corso degli anni in termini di produzione di particelle da usura e gli eventuali limiti riguardano il ridotto modulo di elasticità. Nel caso di un accoppiamento testina-inserto in ceramica-polietilene, invece, secondo gli studi di laboratorio, l’usura risulta lievemente maggiore nel lungo termine, anche se l’arricchimento con sostanze antiossidanti come la Vitamina E ha reso il polietilene di ultima generazione estremamente affidabile in termini di longevità, oltre ad essere l’opzione migliore in assoluto per l’elevata elasticità alle sollecitazioni meccaniche nei confronti dell’interfaccia articolare.

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